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Per approfondire il tema, segnaliamo il Webinar “La tutela dei lavoratori all’estero: sicurezza e salute" programmato per Venerdì 6 febbraio 2015.
Estratto dalla Rivista “Tutela e sicurezza sul Lavoro” 2/2013.
In ossequio sia alla previsione di cui all'art. 6, n. 3, lett. a) della direttiva del Consiglio Europeo del 12 giugno 1989, n. 391, concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, che sancisce l'obbligo del datore di lavoro di “valutare i rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici e nella sistemazione dei luoghi di lavoro”, tenendo conto della natura delle attività dell'impresa e/o dello stabilimento, che in conformità con la statuizione della sentenza della Corte di Giustizia Europea nella causa C-49/00 che impose all’Italia di modificare la legislazione di recepimento della direttiva dianzi richiamata, prevedendo l’obbligo di valutare qualsiasi rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori (normato o meno ed esaminato anche nell’ottica della sua evoluzione tecnico-scientifica) , nonché nel rispetto del principio di cui all’art. 1, lett. b) della legge delega n. 123 del 2007, secondo il quale la normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro si deve applicare “a tutti i settori di attività e a tutte le tipologie di rischio” , l’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 81/2008, non si limita a confermare la centralità dell’obbligo di valutare «tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori», già disposto dall’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 626/1994 (così come modificato dall’articolo 21 della n. 39/2002) , bensì, al fine di garantire una globale, effettiva e mirata tutela a favore di tutte le tipologie di lavoratori, declina espressamente, seppur in modo esemplificativo, alcune caratteristiche distintive in base alle quali raggruppare i prestatori per verificare più congruamente la loro peculiare esposizione ai pericoli e, conseguentemente, valutare gli specifici rischi lavorativi, individuare ed attuare le adeguate misure per eliminare o ridurre probabilità e gravità di infortuni e malattie professionali . Nella “specificificazione gruppale” dei valutandi rischi lavorativi, il legislatore annovera, insieme a quelli collegati allo stress lavorocorrelato (secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004), a quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza e puerperio (secondo quanto previsto dal d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, testo unico sulla tutela e il sostegno della maternità e della paternità, al Capo II del Titolo I), a quelli connessi alle differenze di genere, all’età ed alla specifica tipologia contrattuale attraverso la quale il lavoro viene prestato, anche quelli derivanti dalla provenienza da altri paesi, ossia quelli discendenti dalla circostanza che, i lavoratori il cui rischio espositivo deve essere valutato, sopraggiungono da altre nazioni.Le differenze di genere, di età, di provenienza da paesi stranieri, non vengono, tuttavia, utilizzate dal legislatore solo quali termini di aggregazione per una valutazione dei rischi condotta su gruppi di soggetti omogenei, ma, senz'altro, quali caratteristiche valoriali su cui fondare, almeno sulla carta, l’intero corpus normativo rappresentato dal d.lgs. n. 81/2008, giacché, in base al comma 1 del suo primo articolo, la finalità perseguita dal Testo Unico di garantire l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, dovrà riguardare “anche (…) la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”.
Stranierità, immigrazione, sicurezza sul lavoro: la valutazione dei rischi lavorativi alla luce della cultura di appartenenza geografico-nazionale.
Benché in Italia il fenomeno migratorio abbia una storia più recente rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea quali Francia, Gran Bretagna e Germania, secondo i dati del “Terzo rapporto annuale – Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia”, al 1° gennaio 2012, nel nostro paese “sono regolarmente presenti 3,6 milioni di cittadini non comunitari” che rappresentano ormai il 7,9% della popolazione, numero cresciuto, nel corso del biennio 2011/2012, di un buon 3%. “Le cittadinanze prevalenti sono Marocco, Albania, Cina, Ucraina e Filippine” .
“Quasi la metà dei cittadini non comunitari regolarmente presenti in Italia ha un permesso a tempo indeterminato: si tratta di circa 1 milione e 900 mila persone, il 52,1% del totale dei non comunitari regolarmente soggiornanti, contro il 46,3% del 2011”.
Pur non dimenticando il fenomeno dell’immigrazione, clandestina e non, connessa o meno a scenari di guerra e di crisi internazionali, la forte crescita del flusso migratorio che interessa il nostro Paese è certamente discendente anche dall’esigenza di reperimento della manodopera straniera, basilare, se non addirittura vitale, per il nostro sistema produttivo.
Il lavoro, per la stragrande maggioranza degli immigrati, soprattutto extracomunitari, non rappresenta, tuttavia, solo un mezzo occasionale per garantirsi la sopravvivenza, bensì un diritto di più ampia portata, un vero e proprio diritto di “cittadinanza”, l’esercizio del quale consente loro un inserimento, se non proprio stabile, certamente duraturo, nel nostro ordinamento giuridico e nella nostra società.
La popolazione straniera in età da lavoro (di 15 anni ed oltre), è risultata composta, nel 2012, da 2,7 milioni di cittadini di provenienza extracomunitaria e da 1,2 milioni di provenienza dai Paesi UE, anche se, di questi, hanno lavorato, regolarmente, solo 2 milioni e 334 mila.
L’occupazione, nello specifico dei lavoratori extracomunitari, si è suddivisa, nell’anno di riferimento, per il 62,4% nel settore dei servizi, per il 33,3% nell’industria (di cui l’industria in senso stretto con il 20,9% e le costruzioni con il 12,4%) e, solo per il 4,3%, nel settore agricolo.
La significatività di siffatto scenario occupazionale, tendenzialmente tutelato, ma, in modo ancora più marcato, la significatività del lavoro irregolare, nient’affatto protetto, (si consideri, in quest’ottica, che nel 2012, sono stati quasi 385 mila i cittadini stranieri regolari, circa 120 mila comunitari e 265 mila extracomunitari, che hanno cercato un lavoro regolare e non l’hanno trovato, dovendosi, inoltre, rilevare come diversi indicatori segnalino che la crisi economica abbia colpito in misura relativamente più accentuata proprio la componente immigrata della popolazione ), o del lavoro reso, spesso in situazioni di sfruttamento se non proprio di riduzione in schiavitù , dagli stranieri irregolari (le stime parlano di circa 500.000 persone), pone al centro dell’attenzione politico-sociale, innanzitutto lo specifico profilo della protezione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, della prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.
Non stupisce, infatti, che, nel 2012, gli infortuni ai danni dei lavoratori stranieri abbiano rappresentato ben “il 15,9% degli infortuni in complesso (656.076) e il 15,2% degli infortuni mortali (830)” .
La fondamentale esigenza di proteggere il lavoratore straniero, in particolar modo extra (ma anche neo) comunitario, si manifesta, dunque, soprattutto, nell’apprestamento di specifiche misure di tutela della sua sicurezza e della sua salute durante il lavoro; misure che, al di là dei (riduttivi e “tardivi” ) accorgimenti linguistici con i quali si comunica, ovvero si impartiscono: informazioni e formazione (ma anche: addestramento e istruzioni operative e preventivo-protettive), espressamente previsti dagli artt. 36 e 37 del d.lgs. n. 81/2008, dovrebbero discendere dalla basilare tutela rappresentata dall’obbligo di valutare i rischi lavorativi connessi con la provenienza dei prestatori da paesi stranieri.
Non brillando, il precetto, per particolare chiarezza, anche al fine di evitare un approccio valutativo limitato e, tutto sommato, banale, ancorché non scorretto, quale quello linguistico-espositivo (secondo il quale lavorare prima di conoscere la lingua espone il prestatore straniero ad un ventaglio di rischi lavorativi più numeroso e ad una maggiore probabilità/gravità di evento dannoso rispetto al lavoratore italiano), particolarmente innovativa ed inclusiva, nonché assolutamente originale, risulterebbe, invece, l’analisi del rischio lavorativo insito nella provenienza del lavoratore da un paese straniero, condotta in un’ottica culturale di derivazione geografico-nazionale.
Asserita l’incidenza infortunistica dei comportamenti, dei modi di agire, delle abitudini, che derivano dalla civiltà geografico-nazionale di appartenenza, ossia dal patrimonio di conoscenze, esperienze, nozioni, saperi, valori comuni e diffusi propri di un popolo, nonché delle situazioni eventualmente generabili dall’interazione fra le varie culture gruppali presenti nel luogo di lavoro, soprattutto quella, per così dire, indigena ovvero “nostrana”, la peculiare valutazione dei rischi lavorativi da provenienza nazionale avrebbe, così, ad oggetto, non solo (e non tanto) l’elemento linguistico-espositivo e tecnico-funzionale, bensì, appunto, l’elemento culturale geografico-nazionale della percezione, personale e di gruppo, dell’esposizione al pericolo, della comprensione e dell’accettazione o meno del rischio espositivo lavorativo, del rispetto o meno delle misure tecniche, procedurali e organizzative che quel rischio eliminano o riducono e, soprattutto, l’elemento interattivo fra i vari approcci comportamentali geografico-nazionali, con particolare attenzione per l’esercizio del potere direttivo della catena di comando e per il rispetto degli ordini e delle prescrizioni da parte della linea di controllo e della linea esecutiva..
Le dimensioni culturali-nazionali: la ricerca di Hofstede.
Lo studio relativo all’impatto della provenienza geografico-nazionale sulla rischiosità infortunistico prevenzionale dell’attività lavorativa verrà, pertanto, condotto, in chiave antropologico-psicosociale (e non discriminatoria), utilizzando le cinque dimensioni della diversità culturale, letta nell’ottica del management, così come proposte da Geert Hofstede , dimensioni che hanno il merito di fornire uno schema sistematico per stabilire le differenze comportamentali dei lavoratori appartenenti a diverse culture nazionali.
Hofstede, partendo dalla definizione di cultura come “programma mentale collettivo che distingue i membri di un gruppo o di una categoria da quelli di un altro”; una sorta di software “installato” nella mente di ciascuno, discendente dai modelli di pensiero tramandati (dai genitori ai figli), insegnati (dai docenti agli studenti) e condivisi (tra amici o colleghi) che prende forma e vita nei comportamenti di aziende e istituzioni , ne ha proposto la classificazione prima secondo quattro, poi, successivamente, secondo cinque dimensioni:
A ciascuna dimensione ha associato un numero che permette di confrontare le culture delle diverse nazioni.
La prima dimensione culturale presa in considerazione è la distanza dal potere, vale a dire la misura in cui gli individui meno potenti accettano che il potere sia distribuito in misura diseguale all’interno di una organizzazione.
L’analisi condotta su questa prima dimensione è finalizzata a verificare se ci si trova al cospetto di una cultura che tende ad esprimere follower piuttosto che leader. In termini manageriali, una cultura che ha elevata distanza dal potere (latino americana, spagnola, francese e gran parte di quelle asiatiche) preferisce le burocrazie gerarchiche, leader forti ed è caratterizzata da un grande rispetto per l’autorità; i capi tendono and avere uno stile paternalistico o autoritario, i subordinati tendono a subire le richieste a loro fatte. Al contrario, una cultura che ha una bassa distanza dal potere (americana, inglese e quelle del resto d’Europa) tende a favorire la responsabilità e l’autonomia dell’individuo; gli stessi capi tendono ad usare con i loro collaboratori stili più improntati alla consultazione e alla partecipazione.
Hofstede con un’espressione sintetica disse che un manager che opera in ambiti internazionali sa che “tutte le società sono diseguali, ma alcune sono più diseguali di altre” .
La seconda dimensione culturale presa in considerazione è l’individualismo, nella sua contrapposizione con il collettivismo. Secondo la ricerca di Hofstede, in alcune società nazionali, la collettività ed i legami interpersonali sono più forti (Corea, Grecia, Messico, Giappone ecc.), l’individuo cresce all’interno di gruppi coesi, numerosi e protettivi, contraccambiando tale tutela principalmente con la sua fedeltà alla collettività di appartenenza.
Diversamente, in altre società ci si attende che un individuo sia in grado di badare da solo a se stesso ed alla propria organizzazione o famiglia (Francia, Germania, Canada, Sud Africa, etc).
In termini manageriali, in società con basso livello di individualismo le esigenze ed i meccanismi del gruppo prevalgono su quelli individuali; ove il livello di individualismo è alto, la libera volontà e l’iniziativa del singolo sono accettate come motori di sviluppo o cambiamento .
La terza dimensione culturale è rappresentata dalla mascolinità, nella sua contrapposizione con la femminilità. Lo studio si basa, in questo caso, sulla distribuzione dei ruoli all’interno dei sessi, addentrandosi nell’analisi di valori quali la modestia e l’assertività (polo femminile) o la competitività (polo maschile), proprie di una determinata cultura nazionale.
Tradotta in ambito manageriale, la cultura maschile enfatizza lo status (posizione gerarchica e salario), mentre la cultura femminile pone l’accento sulle relazioni umane e la qualità della vita. Laddove i valori “femminili” rivestono centrale importanza (Svezia, Israele, Danimarca, Indonesia ecc.) le persone tendono ad instaurare un buon rapporto con i capi, utilizzano modelli cooperativi, vogliono poter essere fedeli all’organizzazione (anche per tutta la vita) e pongono attenzione all’ambiente di lavoro (sia aziendale, sia come “area” circostante). All’opposto, in paesi per così dire “mascolini” (Usa, Giappone, Italia, Honk Kong, etc) gli individui ambiscono principalmente, come fonte di soddisfazione personale, alla remunerazione per il proprio impegno, alle opportunità di carriera e di accesso a migliori posizioni, all’ottenimento di incarichi più impegnativi e complessi.
La quarta dimensione culturale oggetto di analisi è rappresentata dal rifiuto dell’incertezza, ossia dal grado in cui i membri di un’organizzazione si sentono minacciati da situazioni ignote, dovendo intendere per situazioni ignote quelle nuove, sconosciute, sorprendenti e diverse dal consueto. Si può osservare, secondo Hofstede, che le culture che hanno un elevato rifiuto dell’incertezza cercano di minimizzare il rischio attraverso leggi e direttive, generando, allo stesso tempo, una grande spinta reattiva nel rapportarsi con l’incertezza. Al contrario, le culture che accettano l’incertezza sono più tolleranti circa opinioni e pareri diversi, tendono a produrre regole meno rigide, risultando più flemmatiche, contemplative, meno inclini ad e-sprimere facilmente le loro emozioni.
Calata nella realtà manageriale, la dimensione culturale appena analizzata evidenzia come le organizzazioni che rifiutano l’incertezza cercano di creare la standardizzazione e la sicurezza del posto/ambiente di lavoro, mentre quelle che non la temono accettano il rischio e sono più aperte all’innovazione.
La quinta dimensione culturale presa in considerazione è l’orientamento a lungo termine ed è finalizzata a descrivere l’orizzonte temporale di una società . Le culture con orientamento a breve termine apprezzano i metodi tradizionali, dedicano una notevole quantità di tempo alla formazione di relazioni e, in genere, hanno una visione circolare del tempo, nella quale passato e presente sono correlati, sicché ciò che non può essere fatto oggi può ragionevolmente essere rinviato a domani. All’opposto, l’orientamento a lungo termine, considera il tempo come lineare, guardando al futuro più che al presente o al passato, esprimendo un atteggiamento mirato al risultato, valorizzando le ricompense ottenibili.
I valori associati all’orientamento a lungo termine sono, pertanto, la perseveranza e la parsimonia, mentre quelli associati al breve termine sono il rispetto per le tradizioni, l’adempimento delle obbligazioni sociali e salvare “la faccia e l’onore”. Questi “valori” sono di origine confuciana, ma secondo lo stesso Hofstede possono essere applicati a società non raggiunte e influenzate dal confucianesimo .
A queste cinque dimensioni culturali ne è stata aggiunta una sesta, autonoma dalle altre, denominata edonismo , espressione dell’indulgenza, della ricerca della felicità contrapposta al controllo ed alla restrizione.
Questa dimensione misura la capacità di una cultura nel soddisfare i bisogni immediati ed i desideri personali dei suoi membri. Due sono i poli anche di questa dimensione: il primo è caratterizzato dalla percezione che una persona è libera di agire come vuole, spendere e spandere e indulgere in svaghi e divertimenti; in altre parole tutto quanto può determinare una condizione di relativa felicità; il secondo è, invece, caratterizzato dalla percezione che le proprie azioni sono soggette a tutta una serie di restrizioni e divieti, con la sensazione che indulgere in spese e divertimenti sia in qualche modo sbagliato. La cultura che attribuisce importanza al senso di controllo ha regole e norme sociali rigide, sotto le quali la soddisfazione degli impulsi è regolata e scoraggiata.
Il modello presentato dallo studioso olandese, pur standardizzato e con evidenti semplificazioni è, tuttavia, molto efficace ed offre certamente spunti e vantaggi gestionali considerevoli: non si può, dunque, non convenire con Hofstede sul fatto che le differenze culturali-nazionali rilevino significativamente nell’organizzazione aziendale.
Infatti, appurato che i valori della cultura nazionale possono essere più forti e radicati di quelli propri della cultura organizzativa aziendale, tale consapevolezza risulta un fondamentale punto di partenza quando si opera con lavoratori provenienti da più paesi, quando il proprio capo o il proprio collaboratore esprimono una differente visione delle relazioni interpersonali, della gerarchia e, perché no, del rischio lavorativo.
Nonostante Hofstede sottolinei come le dimensioni dianzi individuate siano solo uno schema che aiuta a valutare una cultura allo scopo di realizzare migliori processi decisionali in seno all’organizzazione, esistendo, invero, altri fattori da prendere in considerazione, come, ad esempio, la personalità, la storia familiare e la ricchezza personale, i quali impediscono di prevedere i singoli comportamenti individuali, risulta innegabile che, siccome normalmente gli esseri umani interagiscono cercando, consapevolemente, di minimizzare attriti e conflitti, colleghi appartenenti a culture nazionali diverse, lavoreranno meglio insieme quando le differenze non sono importanti o, se non altro, quando, pur in presenza di differenze significative, le stesse saranno comprese e opportunamente valutate dalle parti.
Il modello Hofstede ha, dunque, il pregio di far emergere un punto fondamentale: la forma e la dimensione dell’organizzazione ed i valori culturali nazionali delle persone che vi lavorano, laddove siano conosciuti, possono essere allineati o, comunque, gestiti e ciò al fine di ottenere migliori performances.
Non esistendo, infatti, un’organizzazione senza persone, le diversità cross-culturali che esse esprimono dovranno essere tenute in adeguata considerazione nella definizione operativa del suo management.
Ciò avverrà attraverso l’adattamento:
ai valori culturali di base propri dei principali gruppi nazionali da cui provengono i prestatori, così da evitare attriti e perdite dell’efficacia e dell’efficienza nell’organizzazione.
Le cinque tavole che di seguito riportiamo, elaborate da Hofstede per ognuna delle dimensioni analizzate, permettono di descrivere gli individui secondo la loro cultura di origine in modo da saper stimare quali valori debbano essere esaltati o placati in funzione del ciclo di vita dell’azienda, in modo da confrontare lo stile di leadership del capo con quello di conformazione dei suoi collaboratori o di altri soggetti pariordinati, prevedendo possibili conflitti e migliorando le proprie modalità comunicative in fase di negoziazione.
Tavola 1
Ten Differences Between Small- and Large- Power Distance Societies |
|
Small Power Distance |
Large Power Distance |
Use of power should be legitimate and is subject to criteria of good and evil |
Power is a basic fact of society antedating good or evil: its legitimacy is irrelevant |
Parents treat children as equals |
Parents teach children obedience |
Older people are neither respected nor feared |
Older people are both respected and feared |
Student-centered education |
Teacher-centered education |
Hierarchy means inequality of roles, established for convenience |
Hierarchy means existential inequality |
Subordinates expect to be consulted |
Subordinates expect to be told what to do |
Pluralist governments based on majority vote and changed peacefully |
Autocratic governments based on cooptation and changed by revolution |
Corruption rare; scandals end political careers |
Corruption frequent; scandals are covered up |
Income distribution in society rather even |
Income distribution in society very uneven |
Religions stressing equality of believers |
Religions with a hierarchy of priests |
Tavola 2
Ten Differences Between Weak- and Strong- Uncertainty Avoidance Societies |
|
Weak Uncertainty Avoidance |
Strong Uncertainty Avoidance |
The uncertainty inherent in life is accepted and each day is taken as it comes |
The uncertainty inherent in life is felt as a continuous threat that must be fought |
Ease, lower stress, self-control, low anxiety |
Higher stress, emotionality, anxiety, neuroticism |
Higher scores on subjective health and well-being |
Lower scores on subjective health and well-being |
Tolerance of deviant persons and ideas: what is different is curious |
Intolerance of deviant persons and ideas: what is different is dangerous |
Comfortable with ambiguity and chaos |
Need for clarity and structure |
Teachers may say ‘I don’t know |
Teachers supposed to have all the answers |
Changing jobs no problem |
Staying in jobs even if disliked |
Dislike of rules - written or unwritten |
Emotional need for rules – even if not obeyed |
In politics, citizens feel and are seen as competent towards authorities |
In politics, citizens feel and are seen as incompetent towards authorities |
In religion, philosophy and science: relativism and empiricism |
In religion, philosophy and science: belief in ultimate truths and grand theories |
Tavola 3
Ten Differences Between Collectivist and Individualist Societies |
|
Individualism |
Collectivism |
Everyone is supposed to take care of him- or herself and his or her immediate family only |
People are born into extended families or clans which protect them in exchange for loyalty |
"I" – consciousness |
"We" –consciousness |
Right of privacy |
Stress on belonging |
Speaking one's mind is healthy |
Harmony should always be maintained |
Others classified as individuals |
Others classified as in-group or outgroup |
Personal opinion expected: one person one vote |
Opinions and votes predetermined by in-group |
Transgression of norms leads to guilt feeling |
Transgression of norms leads to shame feelings |
Languages in which the word "I" is indispensable |
Languages in which the word "I" is avoided |
Purpose of education is learning how to learn |
Purpose of education is learning how to do |
Task prevails over relationship |
Relationship prevails over task |
Tavola 4
Ten Differences Between Feminine and Masculine Societies |
|
Femininity |
Masculinity |
Minimum emotional and social role differentiation between the genders |
Men should be and women may be assertive and ambitious |
Balance between family and work |
Work prevails over family |
Sympathy for the weak |
Admiration for the strong |
Both fathers and mothers deal with facts and feelings |
Fathers deal with facts, mothers with feelings |
Both boys and girls may cry but neither should fight |
Girls cry, boys don’t; boys should fight back, girls shouldn’t fight |
Mothers decide on number of children |
Fathers decide on family size |
Many women in elected political Positions |
Few women in elected political positions |
Religion focuses on fellow human beings |
Religion focuses on God or god |
Matter-of-fact attitudes about sexuality; sex is a way of relating |
Moralistic attitudes about sexuality; sex is a way of performing |
Tavola 5
Ten Differences Between Short- and Long-Term-Oriented Societies |
|
Short-Term Orientation
|
Long-Term Orientation |
Most important events in life occurred in the past or take place now |
Most important events in life will occur in the future |
Immediate need gratification expected |
Need gratification deferred until later |
There are universal guidelines about what is good and evil |
What is good and evil depends upon the circumstances |
Traditions are sacrosanct |
Traditions are adaptable to changed circumstances |
Family life guided by imperatives |
Family life guided by shared tasks |
What one thinks and says should be true |
What one does should be virtuous |
Children should learn tolerance and respect |
Children should learn to be thrifty |
Social spending and consumption |
Saving, investing |
Unstructured problem solving |
Structured, mathematical problem solving |
In business, stress on short-term profits |
In business, stress on future market position |
Cina |
Romania |
Marocco |
Ucraina |
Albania |
Gerarchica |
Gerarchica |
Gerarchica |
Gerarchica |
Gerarchica |
Collettivista |
Collettivista |
Collettivista |
Collettivista |
Collettivista |
Maschilista |
Maschilista |
Maschilista |
Maschilista |
Maschilista |
Orientata al LP |
Orientata al BP |
Orientata al BP |
Orientata al BP |
Orientata al BP |
Sopportazione dell’incertezza |
Evitare l’incertezza |
Evitare l’incertezza |
Evitare l’incertezza |
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